“Lo scrittore che non parla mai di mangiare, di appetito, di fame, di cibo, di cuochi, di pranzi mi ispira diffidenza, come se mancasse di qualcosa di essenziale”
(Albo Buzzi).
L’accostamento tra cibo e letteratura č presente sin dai tempi piů remoti. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento la parola di Dio č il pane degli uomini. Parola e cibo insieme, dunque: il cibo, nutrimento del corpo, diviene metafora vigorosa di Sapere e Veritŕ quale nutrimento dell’anima.
Per i latini il termine sapientia deriva dal verbo sapio, che indica aver sapore ma anche esser saggio, avere senno. I latini, cioč, estendevano il termine sapor, che significa sapore, gusto, alla parola per qualificare la parola stessa, per esempio per sottolineare l’eloquenza di un discorso. Sempre i latini offrono materiale etimologico per definire alcuni generi letterari, come per esempio la “satira”, dal latino satŭra, che deriverebbe da un particolare elaborazione culinaria, la “lanx satura”, un piatto di primizie offerte agli dei o anche pietanza composta da ingredienti misti. E poiché parliamo di latino, č significativa la vicinanza al mondo gastronomico del latino cosiddetto “maccheronico”, quest’ultimo termine provenendo, con buona evidenza, dal “maccherone” (che nel Medioevo indicava gli gnocchi, un impasto grossolano e popolare) o anche dal “macco”, sorta di polenta di fave spezzate in uso presso i contadini; entrambi essendo cibi poveri, fatti con materie prime non nobili, atti a indicare un linguaggio incolto, una prosa altrettanto grossolana e adatta al gusto e alla comprensione popolana.
Attivitŕ letteraria e gastronomia si accompagnano nel corso di tutta la storia della letteratura. Emblematico č il caso di Dante che nel suo Convivio paragona le quattordici canzoni ad altrettante vivande e dove i commenti al testo sono paragonati al pane “sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata”[1]. Ugualmente interessante appare il connubio tra gastronomia e teatro, parente stretto della letteratura, essendo il teatro non altro che la drammatizzazione scenica di un testo scritto (benché il testo non sia sempre indispensabile, nel qual caso la parentela č disconosciuta).
Sull’argomento si ricorda il cosiddetto servizio “alla francese” che, con la sua struttura prandiale di derivazione italiana rinascimentale e barocca, dominň la gastronomia sino all’Ottocento (ovvero sino al dilagare della moda del servizio detto “alla russa”, in uso ancora oggi) [2]. L’imbandigione e l’organizzazione del banchetto, in tale visione, era caratterizzata da un elaborato apparato scenico dominato da logiche e finalitŕ prevalentemente simboliche, teatrali: il banchetto era cioč rappresentazione non tanto del cibo quanto di una filosofia di vita legata al piacere dello stare a tavola.
In proposito Brillat Savarin, nella sua Fisiologia del gusto distingue tra il piacere del mangiare e il piacere della tavola [3]. In tale contesto l’arte pasticcera divenne, per restarvi anche nella contemporaneitŕ, la piů alta espressione dell’ideale decorativo. E ciň in quanto i dolci, a ragione della loro natura meramente accessoria, si prestano maggiormente ad assumere un ruolo centrale nell’apparato cerimoniale del banchetto [4].
La definizione moderna comunemente assunta di “dessert”, che č la portata dolce servita in fine di pranzo (la parola, infatti, deriva dal verbo francese desservir, che significa “sparecchiare”) fa inoltre della pasticceria un’evidente metafora dell’agognato finale tanto di un buon romanzo come di una rappresentazione teatrale.
Nella letteratura occidentale contemporanea il legame tra la parola e il cibo č rimasto stretto. Gli scrittori utilizzano la gastronomia per veicolare sia importanti simbologie, sia immaginari collettivi o personali. Il cibo spesso sottolinea passi cruciali del testo e in qualche caso diviene il perno strutturale della vicenda; č inoltre utile a presentare e descrivere i personaggi e a illuminare situazioni [5].
Talvolta č evidente come lo scrittore affidi al cibo il compito di rafforzare la verosimiglianza della vicenda narrata, marcandone il contesto storico e sociale. Di piů: nella letteratura moderna la vocazione narrativa del cibo oltrepassa quella puramente nutrizionale; il cibo si inserisce nella narrazione divenendo, talvolta in maniera occulta, personaggio esso stesso [6]. Tutto questo eleva la gastronomia a un rango culturale di pari dignitŕ non solo con la letteratura ma anche con altre
Giŕ nel settecento Yuan Mei scriveva che “per acquisire la conoscenza in qualsiasi disciplina č necessario prima imparare la teoria per poi passare alla pratica. Lo stesso vale per il bere e il mangiare. Occorre fare la lista di ciň che si deve conoscere” [7].
In epoca moderna l’accostamento della gastronomia con tutte le altre espressioni artistiche, quali letteratura, pittura, musica e architettura, viene affermato con convinto vigore da gastronomi del calibro di Gualtiero Marchesi o di Pietro Leemann [8]. Entrambi sono, peraltro, sacerdoti laici della nuova religione del consumatore colto, incentrata sul rispetto degli ingredienti e sulla tutela del valore nutritivo degli alimenti naturali.
Insomma, mentre il piacere di mangiare ci accomuna agli animali, il piacere della tavola, in cui letteratura, teatro, architettura e altre espressioni artistiche si fondono in armonica composizione, č peculiare della specie umana e richiede attente cure antecedenti non solo per la preparazione tecnica del cibo (attivitŕ comunemente definita culinaria) ma anche per la preparazione dello spirito in senso propriamente culturale.
Come dire: leggere fa bene, mangiare bene fa meglio, leggere e mangiare bene rendono la vita degna di essere vissuta.
Biagio Adile