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Yorick Editore 
Rosaria Brancato – “Storia di Graziella Campagna uccisa dalla mafia”
Prologo
18 marzo 2009, Roma
E’ una mattina livida a Roma. Due uomini si abbracciano in lacrime, per strada. La Corte di Cassazione ha appena condannato all’ergastolo il boss siciliano Gerlando Alberto junior e il suo braccio destro Gianni Sutera per l’omicidio di Graziella Campagna, una ragazzina di diciassette anni massacrata a colpi di lupara il 12 dicembre del 1985.
In quelle lacrime, in quell’abbraccio tra Fabio Repici, avvocato della famiglia Campagna e Pietro, il fratello di Graziella, ci sono ventiquattro anni di attesa. Le condanne per gli assassini, infatti, sono arrivate dopo ventiquattro anni di battaglie giudiziarie e d’indagini personali di Pietro, l’unico a non arrendersi davanti agli insabbiamenti e agli anni dell’omertà.
19 marzo 2009, Villafranca Tirrena.
Dove tutto ha avuto inizio.
“Lei è lì. E’ ferma da dieci minuti, guarda la strada, distratta,sotto il braccio tiene stretta la borsa, un po’ per abitudine, un po’ per paura. Ha quello sguardo assorto, perso nei suoi pensieri, quegli occhi grandi, morbidi, i capelli scuri, legati dietro la nuca.
Lei è lì, sul ciglio della strada, con quel cappottino stretto in vita, abbottonato, fattura semplice, gli stivali scuri, senza tacco, di chi cammina tanto e vuol stare comoda. Guarda la strada da dieci minuti, non guarda mai l’orologio, come se fosse talmente abituata ad attendere da non aver più fretta, ed essere complice del tempo, così da poter gustare,
assaporare quei minuti d’attesa che forse le appartengono più di ogni altro minuto al giorno, passato tra casa, lavoro, famiglia.
Lei è lì da dieci minuti, alle spalle la vecchia costruzione, la finestra chiusa dove mi appoggiavo aspettando anch’io, fratello mio, ma senza la sua pazienza, anzi, con l’ansia di tornare a casa. A diciassette anni, quanti ne avevo io allora, hai fretta di bruciare i giorni, tornare a casa, alle tue cose, alla tua stanza, guardare la tv.
Lei è ferma, solo gli occhi morbidi, nocciola, sembrano muoversi ed io ti vedo guardarla, Pietro mio. Tra un po’ prenderà la corriera, saluterà cortesemente l’autista che conosce da sempre, è un po’ invecchiato con gli anni, ma ha sempre lo stesso sorriso. Siederà sola, sempre allo stesso posto e approfitterà di quegli ultimi minuti prima di rientrare per dedicarsi a se stessa, guarderà la strada che corre, ripercorrerà le cose da fare, quelle già fatte. O forse non penserà a nulla, si lascerà cullare dalla strada, chiuderà appena gli occhi, facendo scivolare preoccupazioni, sogni, speranze. E’ la vita che scivola. Dieci, quindici minuti, poi scenderà dal pullman e velocemente sarà a casa. Non sarà più tempo solo suo. Sarà tempo degli altri, del marito, dei figli, di quella vita scivolata via in fretta, dieci, quindici, vent’anni, ed eccola lì. Come ha sognato da bambina, la sua famiglia, la sua casa, i suoi figli.
Ti vedo guardarla, fratello mio, mentre è ancora piena nel suo tempo solo suo e aspetta senza fretta la corriera, sento i tuoi pensieri, Pietro. Da ore ormai guardi quella fermata dell’autobus, quel tratto che in queste ore ha visto decine e decine di persone fermarsi, aspettare, prendere un pullman. Studentesse con i jeans a vita bassa e l’i-pod, anziane con la borsa della spesa, ragazzini con lo zainetto e la coca-cola in mano, pendolari che rientrano.
Sei lì da ore, fratello mio, di fronte a quella fermata che è la stessa da ventiquattro anni, con quella finestra sul marciapiede che sembra quasi scolpita, quelle persiane chiuse che sembrano murate, sigillate per non guardare, non sentire. In queste ore hai visto la vita degli altri scivolare, le ragazze, le anziane salire sugli autobus con il loro carico quotidiano, gli anni sul viso e sulle spalle.
Mi cercavi con gli occhi. Sei arrivato fin qui con la tua macchina, sempre la stessa da anni, qualche ammaccatura, il colore sbiadito, la tua auto ti ha portato fin qui e sei rimasto a guardare e lo so cosa stai pensando, vorresti vedermi salire su quella corriera. Hai cercato tra le ragazze alla fermata i miei occhi da cerbiatta, il mio sorriso timido, l’onda scura dei miei capelli.
Ma non c’ero. Mi hai cercata disperatamente con gli occhi davanti a quella finestra chiusa, ferma in attesa del bus, come tante volte avevo fatto negli anni giovani della mia breve vita. E adesso, ventiquattro anni dopo, sei lì, quasi appostato come un gatto, con quegli occhi da bambino che vuol cancellare il tempo per magia e cambiare tutto. E con quello sguardo stupito sei rimasto lì per ore, con gli occhi incollati alla fermata, in attesa di vedermi arrivare, vestita così com’ero il giorno in cui mi hanno massacrata, il giubbotto rosso, i pantaloni scuri.
Sei rimasto lì per ore mentre davanti ti sfilava la vita degli altri ma non hai visto i miei occhi di cerbiatto, il mio sorriso timido. Ti ho visto fermo sotto la pioggia e sotto quel cielo scuro di marzo, stranamente scuro per questa città di mare e di sole, quegli occhi lucidi puntati come fucili sulla strada. I tuoi occhi da ragazzo, Piero, ai quali affidavo la mia vita adulta appena iniziata, gli occhi che tanto mi hanno insegnato e che ora rivedo, scuri come quest’aria di metà marzo, fatta di gas di scarico dei camion diretti ai cantieri.
Non c’ero oggi alla fermata, non ho preso nessuna corriera, né oggi, né ventiquattro anni fa. Non sei riuscito per magia a cambiare il passato, non ci sei riuscito neanche stavolta, con la forza della tua disperazione, del tuo coraggio, del tuo amore. Non ero con quelle ragazzine con i jeans a vita bassa, e neanche con quel gruppo di donne indaffarate, scese a Villafranca per far spese, non ero con i pendolari, non ero con quell’anziana signora con il bastone, che si è fatta aiutare per salire, non ero nemmeno con quel bambino con lo zaino, mano nella mano con la sua mamma.
Non c’ero Piero. Eppure sei rimasto lì, fin quasi sera, aggrappato ai ricordi per ore, mentre l’azzurro diventava grigio, mentre le nuvole diventavano pioggia e poi di nuovo grigio, mentre le auto accendevano i fari.
Poi l’hai vista, è arrivata lentamente alla fermata, misurando i passi, senza fretta. Non sembrava neanche dovesse fermarsi, invece l’ha fatto, senza guardare l’orologio.
Lei sa a che ora passerà la corriera della sera, la prende quasi tutti i giorni. Ha quello sguardo un po’ perso, ha quell’età indefinita delle mamme cresciute lavorando e accudendo la famiglia, che hanno dato tutto ed ora hanno i cassetti pieni di foto di compleanni, battesimi, cresime, e hanno sempre un fazzoletto nella borsa per asciugare le lacrime e i baffi di cioccolata di qualcuno. Ha quegli occhi morbidi, i capelli legati dietro la nuca, l’abito semplice che appena s’intravede dal cappotto abbottonato fin quasi al collo.
Ha quarantuno anni, poco meno, poco più, quell’età senza ancora rughe, se non quelle appena accennate intorno alla bocca senza rossetto, ma quelle sono per via dei sorrisi, dei pianti.
L’hai vista e hai pensato che adesso io avrei quarantuno anni e sarei come questa donna, con un abito comodo e non vistoso e lo sguardo sereno di chi ha avuto tanto dalla vita. Graziella è qui, stai pensando, sta aspettando l’autobus della sera per rientrare a casa dopo il lavoro. Un giorno come un altro per lei, uguale agli altri, per 365 giorni, per ventiquattro anni. Non è cambiato nulla, stai pensando, fratello mio, Graziella ha preso il bus il 12 dicembre del 1985, non ha accettato nessun passaggio in auto da nessuno, ha preso lacorriera della sera ed è tornata a casa, quel 12 dicembre del 1985 e per tutte le altre sere, per tutti gli altri anni.
Ed è ancora qui, stai pensando, ventiquattro anni dopo, sta aspettando l’autobus nello stesso posto, con lo stesso cielo scuro di quella sera. Ha visto le foto dei compleanni, ha visto crescere i suoi sogni e i suoi figli, come i ricami che faceva seduta accanto alla mamma, giorno per giorno, filo per filo. Graziella ha visto i capelli di mamma imbiancare, ha visto papà invecchiare. Lo so, Piero mio, che guardando quella donna alla fermata oggi hai pensato tutto questo, hai pensato a me, alla vita normale, quotidiana, che non ho avuto. Sei rimasto a guardarla fin quando non ha preso il pullman e forse avresti voluto fermarla, fermare lei e il tempo, fermare quella sconosciuta e raccontarle la vita che è trascorsa senza di lei.
Per un attimo hai sorriso, pensando che finora era stato solo un incubo, un terribile incubo. Poi il telefono ha squillato e sei tornato alla realtà. Hai guardato la fermata, ora illuminata dai lampioni, mentre intorno le saracinesche dei negozi si sono abbassate una per una, la cartoleria, la merceria, il parrucchiere. Sei venuto qui per cercarmi Pietro, per dirmi che l’incubo era finito, che ieri hanno condannato i miei assassini ed ora sì, magari potevo prenderlo davvero quel bus e tornare dalla mamma.
Ma io quel pullman, la sera del 12 dicembre del 1985 non l’ho mai preso.
Non hai mai più visto i miei occhi da cerbiatta sorriderti.
Così stasera resto accanto a te, fratello mio, che respiri quest’aria fatta di gas di scarico e benzina, sotto queste nuvole pesanti, in questa sera di metà marzo. Ti faccio compagnia mentre guardi la vita degli altri scorrere e vorresti piangere e non riesci a essere felice e non lo sarai mai più, perché anche se i miei assassini sono stati condannati e io non prenderò mai più la corriera. Non tornerò più dalla mamma.
Resto accanto a te stasera, Piero mio, per dirti che lo so che una vita, mille vite son passate in un lampo nei tuoi occhi e so cosa è stata la vostra vita, quella tua e degli altri fratelli, di mamma e papà in questi ventiquattro anni con i miei assassini liberi, impuniti.
Lo so che non sei felice e sei venuto qui per supplicarmi di prendere la corriera e non salire in macchina con nessuno. Lo so che sei venuto qui per vedermi finalmente invecchiata, anche con una vita semplice, con le difficoltà che tutti incontrano, per sentirmi lamentare delle solite cose, la suocera, il lavoro, i soldi che non bastano mai, mamma e papà che non stanno bene.
Lo so che sei venuto qui per dirmi, “Graziella mia abbiamo vinto”, ma non c’è gioia in questa vittoria, ci sono solo le nuvole scure e l’aria ferma.
(Non ho preso la corriera quella sera. Era giovedì 12 dicembre 1985. Ho finito di lavorare in lavanderia poco dopo le 19.30, ho raggiunto la fermata ripetendo gesti e orari uguali da molti mesi. Quella sera pioveva appena. Poche ore dopo sono stata uccisa, cinque colpi di fucile al volto, al torace, il mio corpo straziato abbandonato. Avevo diciassette anni. I miei carnefici sono stati condannati ieri, il 18 marzo del 2009, sono passati ventiquattro anni da quegli spari. Non ho preso quel pullman, se l’avessi preso la mia vita sarebbe stata quella che era già, un binario dritto, un treno locale, di quelli che camminano piano, ogni giorno lungo lo stesso percorso, uniscono piccoli paesi, si fermano in stazioni solitarie, poi ripartono. Ogni giorno gli stessi orari, le stesse tappe, un binario senza interruzioni, una velocità regolare, senza scosse. Forse ogni tanto un coniglio avrebbe attraversato di corsa i binari senza sentire il treno, poi lo stridio dei freni.
Forse ce l’avrebbe fatta a scappare via tra le terpaglie, forse no).

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