leggi il primo capitolo

Yorick Editore – Mauro Leonardi – “Miss Sarajevo”

Cap. 1 – Sarajevo
1.1
Vista
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dall’alto, alle sei del pomeriggio, Sarajevo è una città come un’altra, poi quando il DC9 della BiH Airlines, la Compagnia di bandiera della Bosnia-Erzegovina, forato l’ultimo strato di nuvole leggere, scende a duemila piedi (così avverte il pilota in un discreto inglese) per mettersi a passeggiare sulla città in attesa dell’OK per l’atterraggio, ti accorgi che non è così. A quattro anni dalla fine dell’assedio gli scheletri degli edifici distrutti sono lì a raccontare della ferocia con cui gli artefici di quella guerra insensata avevano distrutto tutto ciò che potevano di quella che pure era stata la loro stessa città, quella di cui erano stati orgogliosi, la stessa che soltanto pochi anni prima aveva ospitato i Giochi Olimpici Invernali.

L’aereo prosegue impietoso il giro di ricognizione lasciando che i passeggeri osservino a terra lo scempio della guerra, che immaginino la potenza scatenata dai mortai piazzati sulle colline intorno alla città o dalle bombe sganciate dagli aerei. Quasi quattromila in un solo giorno nel luglio del ‘93, me lo ricorda il passeggero che ho accanto, un commerciante di etnia serba – come tiene a rimarcare, che, incurante dei divieti, tiene da venti minuti fra le labbra un sigaro acceso che mi rende difficoltosa la respirazione. Per la verità mi aveva chiesto se la cosa mi desse fastidio e l’aveva fatto rivolgendosi verso di me in italiano. La cosa mi aveva un po’ sorpreso ed avevo tardato a rispondergli quel tanto che gli aveva consentito di percepire un “via libera”. Non mi andava di intrattenermi in chiacchiere con lui, almeno questo l’aveva capito senza ombra di dubbio.
Più tardi, con qualche informazione in più sulla Bosnia postbellica non avrei avuto difficoltà a classificare il mio compagno di viaggio fra i nuovi ricchi, sostituitisi nella scala sociale ai gerarchi della Jugoslavia comunista; quelli per i quali la guerra era stata come la manna dal cielo, piovuta sotto forma di aiuti internazionali per la ricostruzione post bellica.
M’interessava maggiormente esplorare con lo sguardo Sarajevo, la mia seconda città natale, cercare con lo sguardo fra le colline quella che – secondo quanto avevo letto nella guida che avevo consultato in preparazione del viaggio – ha l’aspetto di una piramide, con il seguito di mistero che qualcuno ha cercato di imbastirci sopra.
Il giro di ricognizione, se Dio vuole, è terminato, si capisce dal rumore del carrello che fuoriesce sotto i nostri piedi. Ancora qualche scossone, poi il DC9 si avvia, entrando da est, nella pista che si incunea nella parte sud della città e finalmente si adagia per terra.
All’esterno l’aria è frizzante, lo avverto in quei trecento metri da percorrere a piedi verso la sala sbarco del terminal. Arrivati lì il mio compagno di viaggio si infila in una porticina lasciandomi con tutti gli altri comuni mortali ad attendere una buona mezzora per la consegna del bagaglio. Riaccendo il cellulare giusto in tempo per rispondere alla chiamata di Serena.
“Sto per arrivare … il tempo di recuperare il bagaglio”.
Serena da tre mesi a questa parte è una delle persone più importanti nella mia vita ma ho il timore di non riconoscerla se non dalla voce. Ma lei, venendomi incontro per un abbraccio, mi toglie dall’imbarazzo, escludo categoricamente che ad attendermi a Sarajevo ci sia una moltitudine di donne interessate a fare con me altrettanto.
“Ciao Massimo, come stai?… è andato bene il viaggio?…”
A giudicare dal calore dell’accoglienza sembrerebbe che fossimo stati insieme fino al giorno prima.
1.2
Francesco, ripetendo a memoria le istruzioni impartite dall’allenatore, era andato via, palla al piede, sulla destra seminando per strada, con una serie di finte, i difensori avversari. Lui per i tifosi era “Garrincha” non solo per quel suo dribbling capace di ubriacare gli avversari ma anche per quell’incedere sbilenco che, così come per il campione brasiliano degli anni sessanta, era dovuto alla diversa lunghezza delle gambe, conseguenza in entrambi i casi di una poliomielite non curata in tempo. Francesco era così: si inebriava lui stesso di quella sua abilità ma in fondo non gliene fregava niente di finalizzarla a vantaggio della squadra e tante volte, compiuto il suo capolavoro, finiva con l’incespicare sul pallone o con il concederlo all’avversario più vicino.
Non quella volta, purtroppo.
Lucido e concentrato, era stato attento a osservare la mia posizione al centro dell’area di rigore ed aveva pennellato un cross giusto per la mia testa ed io ero arrivato puntuale all’appuntamento.
Il gol era giunto, quasi al termine del secondo tempo, come un miracolo, a sbloccare un risultato di parità che tutto sommato per il Fidenza, la mia squadra, ospitata al Tardini nella quarta giornata di ritorno del Torneo d’Eccellenza, sarebbe stato più che accettabile.
Ricaduto a terra dopo il volo spiccato per incornare la palla, ero stato, come altre volte, sommerso dall’abbraccio dei compagni ma poi tutto era diventato buio, ero rimasto a terra svenuto. Risvegliatomi, mi ero trovavo nello spogliatoio attorniato dai compagni di squadra e con a fianco il medico. Avvertivo un forte dolore al fianco destro che non mi avrebbe lasciato per giorni e giorni.
Cos’era successo si era visto dal filmato: il difensore avversario che aveva cercato di contendermi la palla in volo era ricaduto a terra, piegando verso l’alto un ginocchio sul quale sarei a mia volta ricaduto. Un incidente banale a prima vista.
1.3
Il seguito di quell’episodio è per me il film di un incubo durato tre anni. A casa, dal Tardini, c’ero tornato con i miei piedi pur se il dolore persistente al fianco mi rendeva difficile il movimento della gamba destra. Nulla di particolare pensavo, tanto che avevo evitato, come altre volte nei casi d’incidenti banali, di allarmare mia madre. A vent’anni non ci si lamenta per così poco. Un antidolorifico, pensavo, e l’indomani nuovamente in piedi se non addirittura in campo per il consueto leggero allenamento del lunedì pomeriggio.
Non era andata così quella volta: la notte in bianco e il giorno dopo dolorante più di prima, cosicché, quando mio padre, trascorsi alcuni giorni, aveva insistito per una radiografia al Policlinico, non avevo sollevato alcuna obiezione.
La diagnosi (“Ematoma esteso al rene destro”) non mi diceva gran che e la cautela del medico del Policlinico mi era parsa “di maniera”.
“Un anticoagulante e antidolorifici al bisogno, poi si vedrà, dipenderà da come si evolve la cosa… certo, se questa radiografia l’avessimo fatta all’indomani dell’incidente sarebbe stato diverso…”.
“Diverso in che senso?” avevo chiesto.
Quello si era limitato a scrollare le spalle, rivolgendosi verso mio padre, come per dire

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“Benedetta gioventù …”.

Quanto fosse opportuna la cautela del medico avrei cominciato a capirlo dopo alcune settimane di cure rivelatesi inefficaci: gli antidolorifici avevano fatto il loro dovere e il dolore era finalmente scomparso ma quella macchia scura nella radiografia era rimasta. E tutti gli esami diagnostici effettuati nelle settimane successive avevano portato ad una conclusione univoca: un rene al momento inservibile per via dell’ematoma non riassorbito.
Con un rene in meno si vive tranquillamente, l’avevo sentito dire, purché ovviamente l’altro faccia il suo lavoro a dovere. Non era il mio caso, purtroppo: il mio rene sinistro, ipotrofico fin dalla nascita, avrebbe dovuto accollarsi un impegno per il quale non era preparato.
Di quel mio problema congenito avevo sentito parlare i miei genitori da ragazzo ma, data l’assenza di conseguenze immediatamente apprezzabili, l’avevo collocato nel dimenticatoio insieme con scarlattina e morbillo.
Dopo due mesi di ottimismo professato a dispetto dell’umore cupo di mio padre, avevo dovuto prendere atto della realtà. Era iniziato da allora il calvario dell’andirivieni fra i vari specialisti e la conseguente alternanza fra schiarite ed annuvolamenti, le prime sempre più sporadiche, i secondi sempre più persistenti.
Per non parlare delle illusioni alimentate da più di un luminare della medicina, puntualmente trasformatesi in delusioni.
Passavo sempre più spesso le giornate a letto, con gli occhi fissi a scrutare il soffitto, non solo a causa della stanchezza “spiegata dal quadro clinico” (come dicevano i medici) ma anche per uno stato di prostrazione, una sensazione di impotenza di fronte a ciò che mi era capitato.
Che il mondo mi fosse crollato addosso era chiaro, di calcio non si sarebbe più parlato e non sarebbe stata nemmeno l’unica limitazione nel mio quotidiano. Che vita mi aspettava? E non riuscivo ad apprezzare l’aiuto che mio padre cercava di offrirmi:
“Non c’è solo il mestiere di calciatore nella vita, nulla ti impedirà di fare per bene l’avvocato, per esempio”.
Non mi piaceva ascoltare queste parole ma non era un esempio buttato a caso, lo studio c’era già, proprio quello di mio padre, dove già lavorava da tempo mio fratello di dodici anni più anziano di me e dove non avevo voluto però mettere piede fino a quel momento, limitandomi a dare qualche materia all’università, senza troppa fretta, giusto per tenere viva in famiglia quella prospettiva di continuità nella professione iniziata sessant’anni prima da mio nonno che già aveva indotto anni prima mio fratello a mettere da parte la passione per la musica.
Gli studi di legge li avevo ripresi e la laurea era arrivata, quando erano passati poco più di due anni dall’incidente, anche se con un modesto novantacinque. Una macchia nella storia di famiglia che avevo cercato di coprire con una battuta: “Risparmiamo una cornicetta”.
Avevo nel frattempo adottato un modello di vita privo di grossi impegni, simile a quello di molti miei coetanei con tutti gli svaghi e le frequentazioni che una città come Parma offre, in sostanza una vita quasi normale. Il “quasi” è d’obbligo perché la stanchezza era sempre dietro l’angolo, inspiegabile se non con il famoso “quadro clinico”.
Dei rapporti di quel periodo con l’altro sesso è meglio non parlare. Paola, una bella ragazza che avevo conosciuta all’università due mesi prima dell’incidente, era parsa non troppo dispiaciuta del nostro allontanamento su cui aveva influito il mio cattivo umore per quella condizione che avevo sbrigativamente definito “da handicappato”, e nessun’altra era apparsa al mio orizzonte o, almeno, non me ne ero accorto, intento com’ero a scacciare via dalla mente un’idea sempre più incombente: la “dialisi”.
Non era questa un’ipotesi peregrina: tutto ciò che avevo letto su vari libri di “medicina fai da te” mi obbligava ad immaginare un futuro di quel tipo. Quando decisi di parlarne apertamente con quello fra i medici che mi era parso più sincero e affidabile la cosa mi venne confermata: la dialisi era la soluzione alla quale sarei probabilmente arrivato nel giro di qualche anno, dovendomi attendere un peggioramento della situazione. Unica alternativa il trapianto da donatore, con una serie di “se” e di “ma”: la sproporzione fra reni disponibili per il trapianto ed aspiranti, con conseguente lunghezza delle liste d’attesa, rendeva la cosa non facilmente realizzabile, a fronte, fra l’altro, del rischio di rigetto.
Nulla di concreto su cui fare affidamento, avevo concluso.
Eravamo giunti al Natale del ‘99, per me il peggiore di cui abbia memoria.
1.4
Poi, fra Natale e Capodanno, la telefonata che mi avrebbe cambiato la vita.