leggi il primo capitolo

Enzo Chiorazzi – IN NOME DEL PADRONE – YORICK EDITORE
www.yorickeditore.it

Non riesco a dimenticarla.
E’ un ricordo che brucia e mi sporca di fumo nero.
Ritengo opportuno liberarmene, forse, scrivendolo.
Col tempo e l’uso meticoloso della pazienza,
ho domato e messo in briglia i tanti dolori recintati
come cavalli nella mia sconfinata tristezza.
Di tanto in tanto ne libero alcuni frustandoli con furore.
Adesso però, ho deciso di aprire il recinto,
ma temo non usciranno tutti.
Allora dovrò entrare e frustarli ancora.
Poi mi siederò e li guarderò andare,
con tutta l’indifferenza che posso.
Lei era in piedi, sul davanzale della finestra. In una mano teneva la boccetta
dell’alcool etilico. Nell’altra i fiammiferi, cento testoline rosse. Io la guardavo e
tacevo: non capivo. Con calma, svuotò la boccetta sui capelli neri, lucenti
come pece calda, e accese un fiammifero. Era fradicia e puzzava da lontano.
Guardava la fiammella, guardava me, poi http://isnyvolleyball.de/h5s-ontario-adult-chat-rooms di ocala singles dance nuovo la fiammella. Aveva un
vestitino blu con orli rossi, e un colletto di pizzo bianco. Nei suoi occhi c’era
l’incompatibilità irreversibile con questo mondo.
http://cours.epicuriousgenerations.com/fs-vegas-live-webcams Disse qualcosa, e pareva darmi il fiammifero acceso. Invece soffiò, lasciò
piegare quella testolina nera e
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mi buttò una lettera: dalla a tua madre, disse.


Mi sono ripreso e le ho urlato una disperazione. Lei invece, con calma
invulnerabile mi ha detto:
-Vattene.
-Cosa fai sulla finestra?!
-Voglio morire.
-Ma perché?
-Vi odio. Tutti quanti.
-Che c’entro io?
-Siete tutti uguali. Vi odio.
-Ma che ti ho fatto?
-Schifo. Fate tutti schifo.
-Per favore!
-Vattene, mongoloide.
-Io non ti ho mai chiamata zoppa!
-Spostati, menomato!
-Smettila! Scendi!
Accese un altro fiammifero, sussurrò qualcosa alla fiammella, chiuse gli occhi
e lo poggiò sui capelli.
Fu un’esplosione di luce.
Un suono morbido, composto, rotondo.
Era una fiamma giovane, alcolica, turchese e bianca.
Trasparente quasi.
Come una stella cadente, è volata giù.
Una stella carica di desideri in fiamme.


Uno
La serpe
Fedor guardava la torcia accesa, stretta dal sagrestano come un vessillo
contro il vento, ed era una fiamma giovane, alcolica, turchese e bianca,
trasparente contro il cielo pulito del primo saggio d’inverno: scarabocchi rosa
sul prossimo tramonto freddo. Davanti a tutti c’erano minuscoli chierichetti,
con tuniche bianche baroccate d’oro. Bimbe in fila spargevano petali bianchi
e rosa. Fedor dating arrienne piangeva, e insieme odiava intensamente. Alcuni petali gli si
poggiarono sui sandali marroni, li scosse schifato, come se tingessero di
morte o di fuliggine umana.
Il passo del corteo sui ciottoli, avanzava come un rullo di tamburi di cuoio e
di pietra battente: un plotone di esecuzione. Infine il clangore della unanime
campana di morte, un appello perenne, una sola nota, un concerto infinito.
Alle finestre lenzuola bianche, mentre stormi di foglie nel vento sporcavano i
petali sparsi con sferzate di frusci secchi.
C’era il muratore, con la cazzuola imbrattata di malta vecchia e il berretto di
carta poggiato sul petto, rispettoso, fermo come una statua di cemento,
pronto a chiudere il loculo mattone su mattone e spegnere così l’ultima sua
luce ormai inutile.
Il silenzio era denso di domande rivolte a un dio muto, sconosciuto, brillante
di fuoco chiaro, alcolico, inesauribile, incapace però di risposte alle cento
colpe insensate che gli pulsavano dentro il piccolo petto adolescente. Fedor le
sentiva come un peccato in agguato, che lo avrebbero assalito ed incendiato
al primo indebito sollievo. C’era una vecchia a una delle tante finestre di
mattoni consumati. Teneva un lembo di scialle in bocca, conteso dal vento e
dalle nude gengive serrate, mentre l’altro sfrondava i gerani nel vecchio vaso
di terracotta. Anche quel lembo per lui era una fiamma che bruciava quei
giovani petali nel vento, oppure, in quella tediosa litania, poteva apparire
come una vecchia foto in seppia, un solo fotogramma antico.
Tutti avevano gli occhi serrati dal vento: la vecchia alla finestra, il prete,
decine di passeri silenziosi sul cavo elettrico che dondolava nel vuoto.
Raffiche insolenti alzavano le gonne avare, ma anche i capelli bisunti della
donna che in mezzo al corteo si percuoteva con un batacchio di spilli
acuminati sul seno scoperto. Il suo sangue aveva il colore del buio e del cotto
di vino, scuro, percolante sui bianchi seni turgidi. Ogni tanto il prete si girava
a guardarla, poi sconfitto da tanta sacralità in mezzo a tutto quel profano,
sproloquiava grappoli di requiem in perfetto latino. Erano parole lisce, tonde,
ognuna come lucidi e trasparenti acini di cristallo. Amen e Amen. E poi
ancora il vento, a caricare e portare a Dio i cosissìa suonati dalla vecchia
campana col solito ritmo per niente scomposto dal vento. Davanti al corteo
c’era un quartetto di bimbe in tulle bianco che cantava:
“Apri le braccia, voglio volare,
sopra il tuo seno mi voglio posare.
Prendimi bruna, Mamma dorata,
mille fiammelle m’hanno baciata.”
Il corteo ora era un viscido serpente che strisciava nei vicoli stretti, tra case
sbilenche, nere e sfondate come una grande bocca di denti cariati.
Davanti, le bimbe bianche con i petali rosa.
Appresso i chierichetti con tuniche bianche.
Poi il prete, pure lui bianco.
Quindi la giovane bara, bianca.
Dietro,
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le donne nere, estreme di facce e dettagli funebri.
Infine gli uomini, tesi da pance piene, presuntuose, ostentate, in nero velluto
grosso.
Per Fedor, quello era un lungo serpente nero con la testa bianca.
E il veleno nella coda.